Quando mi sono avvicinato allo spinning, non ero completamente nuovo alla pesca. Venivo da anni di esperienza con tecniche più tradizionali, in particolare la pesca a fondo, dove nel tempo avevo ottenuto discreti risultati.
Insomma, un po’ di dimestichezza con attrezzature, spot e comportamento dei pesci l’avevo maturata.
A incuriosirmi dello spinning, inizialmente, è stata la sua praticità.
Poter dedicare tutto il tempo effettivo alla pesca, senza dover montare e smontare canne da fondo, treppiedi o pasturatori, era un concetto nuovo e affascinante per me. Bastano una canna, uno zaino e qualche artificiale… e sei subito operativo, sempre in movimento, sempre a caccia.
Ma poi, come succede spesso, è scattato qualcosa di più profondo.
Quella sensazione di sfida continua, quel silenzio che ti mette alla prova, la ricerca del predatore. Lo spinning ha cominciato a coinvolgermi non solo per la comodità, ma per la tensione, l’adrenalina, l’idea di stanare prede più interessanti e combattive.
È lì che ho capito che mi stavo innamorando davvero di questa tecnica.
La realtà, però, è stata ben diversa.
Le prime uscite sono state un misto di entusiasmo e confusione. Lanciare, recuperare, cambiare esca, muovere la canna… senza alcun tipo di risposta. Nessun attacco, nessun pesce che seguiva l’artificiale, nessun “feedback”. Solo silenzio.
Il silenzio dello spinning può essere assordante.
E la domanda che mi tormentava era sempre la stessa: “Cosa sto sbagliando?”
Muovo male l’esca? Ho sbagliato orario? Forse il posto non è quello giusto? Oppure, peggio ancora, i pesci non ci sono?
Tutti questi dubbi mi giravano in testa in continuazione, tanto che dopo qualche sessione iniziavo a perdere motivazione.
A che serve insistere se non succede mai niente?
Ammetto che per un periodo ho pensato seriamente di lasciar perdere. Forse non era la tecnica giusta per me. Forse serviva qualcosa che desse più certezze, più “feedback”.
Ma nonostante tutto, c’era qualcosa nello spinning che continuava ad attirarmi. Era la sfida.
Una sfida silenziosa, personale, quasi testarda. La voglia di capire, di migliorare, di arrivare a quel momento in cui finalmente il predatore decide di attaccare. E allora ho iniziato a cambiare approccio.
Ho smesso di andare a caso e ho cominciato a studiare.
Mi sono perso ore e ore a leggere articoli, guardare video, ascoltare chi ne sapeva più di me. Ogni piccolo consiglio era oro: la velocità del recupero, la scelta dell’artificiale, le condizioni meteo, il comportamento dei pesci.
Poi ho fatto qualcosa di ancora più concreto: mi sono iscritto a un corso online tenuto da Luigi di Planetspin.
Un’esperienza preziosa, non solo per le nozioni tecniche, ma soprattutto perché mi ha dato modo di condividere i miei dubbi con altri pescatori alle prime armi, proprio come me.
Ci siamo confrontati, abbiamo raccontato le nostre esperienze e ci siamo supportati. Mi ha fatto sentire meno solo, parte di un percorso comune, ma soprattutto mi ha fatto capire che non ero l’unico alla costante ricerca di quel “feedback” che mi facesse capire di aver intrapreso la giusta strada.
Qualche tempo dopo ho avuto la fortuna di partecipare a una sessione di pesca con Luigi.
Uno spot vicino casa mia che avevo sempre ignorato. La situazione aveva alzato tantissime le aspettative…forse era la volta buona. Invece dopo una lunga sessione di lanci, ancora niente, ancora nessun “feedback” sarei tornato a casa con la coda tra le gambe anche stavolta, pensavo. Invece, avevo imparato.
Avevo imparato a leggere quello spot, a interpretare le condizioni del momento.
Non me ne ero nemmeno reso conto subito, ma quella sessione mi aveva lasciato qualcosa di importante.
Poi arriva il giorno in cui si ripresentano le stesse condizioni, provo a contattare qualcuno per una sessione in compagnia ma sono tutti impegnati. Sono da solo, ma qualcosa dentro mi dice: vai. Riprovaci.
Vado. Arrivo sullo spot. Osservo. Ricordo ogni gesto, ogni consiglio, ogni dettaglio imparato nella sessione precedente. Provo a studiare il mare prima ancora di mettermi in pesca per cercare di capire dove possa essere quella famosa strike zone di cui Luigi mi ha tanto parlato.
E allora lancio. Un attacco. Violento. Improvviso. Reale.
Dopo tante ore, tanti lanci, tante incertezze, il predatore è lì. Combattivo. La canna si piega. Il mulinello canta. Dopo il primo momento di grande emozione cominciano i grandi dubbi… reggeranno i nodi? Ho fatto tutto per bene… effettivamente non ho mai avuto modo di testare veramente quello che ho fatto. E poi? Come lo porto a riva? C’è un’onda importante sarò in grado di gestire l’ennesima fuga sotto riva. Intanto, mentre i pensieri affollano la mente, continuo il mio combattimento… ho intravisto una coda sembra veramente grande!
Il cuore batte forte. E quando finalmente vedo salire quella spigola di 5.4 kg, capisco che ne è valsa la pena.
Quell’emozione ha ripagato ogni singolo cappotto, ogni dubbio, ogni momento di frustrazione.
E, soprattutto, è stata una conferma: stavo facendo le cose giuste. Solo che dovevo avere pazienza.
Lo spinning non ti regala nulla. Ma ti insegna tutto.
Ti insegna a osservare, a dubitare, a non dare nulla per scontato. Ti insegna a credere nel processo.
I dubbi non spariscono mai davvero – ancora oggi, quando torno a casa a mani vuote (spesso), me lo chiedo: “Avrò fatto bene?” – ma col tempo impari a conviverci. E a capirli non come nemici, ma come compagni di viaggio.
Se c’è una cosa che ho imparato, è questa: nello spinning non si vince. Si cresce. E forse, è proprio questo il bello.
Testo e foto di Luca Di Bianco x PLANETSPIN
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Grazie a tutti e buona continuazione sulle pagine di PLANETSPIN!
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